photo by Steven Meisel
Un talento fuori dal comune. In un uomo dalla sensibilità sfaccettata, comunque intrigante. La prima volta che ho incontrato Alexander McQuee è stato a Londra, nel negozio di abbigliamento maschile dove lui, nemmeno ventenne, lavorava come apprendista. Gentile, disponible, mi colpì per l'attezione che aveva verso il suo lavoro e per i piccoli ma già geniali suggerimenti. E quando, qualche tempo dopo, Isabella Blow me lo descrisse come "uno dei migliori talenti che abbia mai incontrato", ricordai quella mia prima impressione. Le nostre strae si sono incrociate moltissime volte da allora, sia ai fashion shows sia in occasioni sociali o private. E' capitato molto spesso che ai pranzi della moda fossimo seduti vicini: il suo sorriso era enigmatico, non parlava molto, ma sempre con un "twist" che lasciava intravedere una personalità forte, certo problematica, mai banale. Non amava particolarmente la mondanità, ma ha sempre risposto con un sì immediato ai miei inviti per gli eventi di "Vogue Italia". Lo ricordo entusiasta alla serata che nel 2001 abbiamo organizzato al Beach hotel di Montecarlo per festeggiare sia i Laureus awards sia il compleanno di Helmut Newton. O quando, lo stesso anno, gli ho proposto di partecipare alla performace "VB47" di Vanessa Beec roft, ispitarata a Giorgio de Chiricho, al Guggenheim di Venezia: le modelle avevano inosso solo le sue scarpe e i cappelli di Philip Treacy, suo grande amico; tutto era stato disegnato per l'occasione. E' superfluo, oggi, sottolineare quanto genial, innovative siano state le sue collezioni e quanto spettacolari i suoi dèfilès, vere e proprie performances teatrali. Più di una votla mi ha chiamato prima, dicendomi: "Sarai sorpresa...". E lo sono stata soprattutto quando ha rifatto live "Non si uccidono così anche i cavalli?", film del 1969 diretto da Sydney Pollack, del quale aveva ripreso l'idea della maratona di ballo dove vince la coppia che crolla per ultima. Fin dagli esordi, è stato questo il suo modo di presentare la moda. Ero sempre presente anche nei primi anni, quando sfilava a Londra, dove andavo quasi sclusivametne per vedere le sue creazioni. E ho dei ricordi vivi, come sfilata nella quale gli abiti erano spruzzati d'inchiostro e le modelle passaano sotto una doccia che, facendo sciogliere inchiostro e trucco, rendeva il colore degli abiti via via diverso; l'acqua confluiva poi sotto la passerella trasparente, creando l'effetto di un fiume azzurro. Memorabile anche quella in cui aveva ricostruito un bosco con un laghetto di ghiaccio e dei cervi, il tutto racchiuso in un gigantesco box di vetro. Oppure quella in cui le modelle apparivano e sparivano attraverso botole nascoste sotto lo stage; o, ancora, quella degli scacchi a Parigi... Una volta, nel suo studio londinese, poco più di un garage, mi sono accorta che guardava com'ero vestita con più attenzione del solito. Qualche ese dopo, alla fine della sua sfilata total black dedicata al vittoriano, mi ha detto: "Quel giorno mi hai ispirato...". Anche quando è stato chiamato da Givenchy ha mantenuto il suo modo di costruire e presentare la moda: sfilate memorabili per qualità e originaltà, anche se non riconosciute dalla maison. Alexander non si accontentava mai e dava l'impressione di non credere fino i fondo nelle sue qualità. Ma tutti sapevano, e sanno, che è stato grande, e la sua visione straordinaria. Lamoda ha perduto uno dei suoi più geniali innovatori.
Vogue n.715 - marzo 2010
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